Mika, l'Eurovision e il resto del mondo. "Due anni fermo a sistemare il cervello. Ora sono un uragano"
di Gianni Santoro
La conduzione (con Cattelan e Pausini) dello show in programma a Torino dal 10 al 14 maggio, il tour a settembre, ma anche l'America, il Marocco, Parigi. "In questi ventiquattro mesi di Covid ho avuto modo di non fare niente, che è anche la cosa più potente al mondo"
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18 MARZO 2022
AGGIORNATO ALLE 23:28
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"Ho 38 anni, fra un anno e mezzo ne avrò 40. Allora voglio un uragano di attività. Invece di diminuire voglio aumentare". Mika è un fiume in piena. Era in pieno tour mondiale quando due anni fa arrivò il primo lockdown e la frenata fu brusca. "Il Covid mi ha dato la possibilità non solo di essere presente in famiglia quando mia madre stava morendo, ma anche in qualche modo di... guarire. Questa idea della guarigione del cervello è quasi un tabù. Ho avuto l'opportunità di sistemare il mio cervello. O di lasciare che si sistemasse da solo. Quindici anni di carriera e vita pubblica fottono la mente. Il successo, il fallimento, l'arte, l'egoismo... Lavoro da quando avevo otto anni".
Era un gioco a quell'età?
"No, no, era un job, un lavoro. Se metti un bambino a cantare davanti a tremila persone e poi gli dai un assegno quel bambino inizia a maturare molto velocemente. Mi buttarono fuori da scuola perché ero un disastro, allora mia madre mi disse: "Ok, allora lavorerai, imparerai dalla vita". Pochi mesi dopo cantavo alla Royal Opera di Londra nella produzione di un'opera di Strauss, La donna senza ombra. È ripartito tutto così dopo che per sette-otto mesi avevo dimenticato come leggere e scrivere".
A causa di un trauma?
"Sì, una storia complicata. Ci eravamo trasferiti dalla Francia in Inghilterra, mio padre era stato preso come ostaggio nella prima guerra del Golfo (banchiere, era in un viaggio di affari, ndr), e quando tornò era diverso. Perdemmo tutto. E poi a scuola avevo un'insegnante violenta, psicologicamente e fisicamente. Il cervello si spense un po' alla volta. Prima ero brillante, diventai un idiota. Mia madre disse: "Dobbiamo stabilire un nuovo sistema di valori per te: l'arte, la bellezza, non i voti a scuola"".
In questi due anni quindi ha avuto modo di rallentare e fare un bilancio.
"No, di non fare niente. Che è anche la cosa più potente al mondo".
C'era il rischio che non tornasse poi la voglia di fare?
"Chi se ne frega. Ma è tornata, per la gioia di farlo, non per la paura. A maggio dello scorso anno sono entrato in studio da solo. Il primo giorno mi sono messo lì e ho detto: voglio tornare al pianoforte. Ho iniziato con un ritmo alla Steve Reich. Poi ho aggiunto un'altra cosa, un loop di otto pianoforti che era come un cuscino: ero a casa, ho costruito una casa per il primo pezzo. E ho cominciato a recitare e a urlare come un pazzo. "Ti chiedi a volte dove va, dove va il sole, ti chiedi a volte dove vanno i ragazzi la notte, ti chiedi perché esci sempre dal mio letto prima che l'amore si metta fra di noi". Uno stato euforico, come se la musica fosse una droga.
E ora ha mille cose da fare.
"Ora vado in studio a Parigi per l'album, poi vado dai Berberi in montagna con una 4x4 per registrare musiche per la colonna sonora di un film francese, poi a Boston per la preproduzione per il tour americano, poi le arene in Canada, poi suonerò al festival di Coachella, poi sono a Rabat per 5 giorni per la colonna sonora, poi un nuovo video, poi a Torino per Eurovision e poi di nuovo con gli arrangiatori per la parte sinfonica del film. E quindi al matrimonio di mio fratello".
Come sarà la colonna sonora?
"È un film francese su un piccolo ragazzo di 11 anni che fa un viaggio dal Marocco in tutto il deserto del Sahara fino ad Abu Dhabi. E io devo accompagnare questo viaggio con 60-65 minuti di musica. Mi sono chiesto 50.000 volte: come si fa una cosa del genere? Come faccio tutto, come se fosse una scultura. Andrò con una 4x4 con il mio zaino e il mio assistente fonico a visitare queste tribù e a capire cos'è questa musica che non si può scrivere e non esiste scritta, va catturata e per capire devi viverla, vibrarla. Faremo questi field recordings con vari musicisti, per poi prendere queste informazioni e farle diventare una colonna sonora di un film anche con un'orchestra sinfonica. Non volevo fare questo errore gigante di cercare di scrivere la musica di una cultura dove la scrittura della musica non esiste. Parliamo di una zona che non è influenzata o contaminata dall'ovest. Se andiamo verso Tangeri lì c’è l’influenza dell’Andalusia ma arrivando dai Berberi le influenze sono dell’Africa profonda, ci sono anche legami con la musica del Congo. L’importante è non fare suonare all'orchestra sinfonica di Parigi o di Londra cose arabeggianti come fosse Aladdin".
E un tour italiano, The Magic Piano, in partenza da Verona il 18 e 19 settembre, con doppie date in ogni città, Firenze, Bari, Milano, Roma: la prima a teatro e la seconda in un'arena.
"Suonerò anche brani nuovi. Questa dualità mi permette di esprimere proprio i due aspetti della mia musica. Un concerto solo con il piano e un grande show spettacolare. Due serate che si parlano tra di loro, ci sarà un racconto, non autobiografico ma alla fine si parla anche della mia vita perché come tutti gli artisti sono un po' autoreferenziale".
Intanto l'Eurovision Song Contest, dal 10 al 14 maggio a Torino.
"Mi esibirò anche e sto pensando a una performance provocatoria. Sarà una sorpresa. Eurovision non è soltanto uno show, è come un'Expo ma concentrato in pochi giorni".
Meglio cantare o presentare?
"È uguale. Devi sempre pensare a quello che arriva alla gente a casa. È quello che faccio anche seduto al tavolo di X Factor, devi essere al servizio della persona sul divano davanti a uno schermo".
Ha mai pensato di gareggiare all'Eurovision?
"Non lo so, non è mai capitato. Però ci sono cose dell'Eurovision che mi piacevano tantissimo. In Inghilterra è sempre stata una serata sacra, prima in famiglia, poi al pub con troppe birre. Ricordo brani del passato come Puppet on a string. Era di Lulù o Petula Clark? Era tv in bianco e nero. Non c’ero ancora ma fa parte della cultura popolare. È un Sanremo diciamo più.. discutibile da alcuni punti di vista. Poi ricordo Katrina and the Waves, e poi c’erano degli olandesi che cantavano Flying on the wings of love. Se la canti in un pub in Inghilterra tutti la intonano in coro".
Lo scorso anno ci fu la consacrazione dei Maneskin.
"Io non c’ero quando vinsero X Factor. Però mi ricordo quando sono venuti a cantare l’anno successivo e lì ho visto una cosa molto precisa. Ero scioccato dalla precisione e dalla cura del dettaglio dell'insieme. Questo gruppo ha capito la forza del dettaglio e la forza del gesto collettivo. Mi piace un sacco la precisione con la quale suonano, è tutto molto molto preciso ma poi può essere un po’ selvaggio".
Tornerà come giudice a X Factor?
"Ah non lo so, la produzione mi piace da morire. Lavorare con Sky, anche con tutti i produttori. Il problema che è in questo momento, dopo due anni, c'è un ingorgo enorme di attività perché è stato tutto rimandato. Io sono uno dei pochi artisti che è stato riconfermato dopo due anni a Coachella, per esempio. Come fai a dire no? E se dico di no? Vorrebbe dire che saranno quasi quattro anni senza una mia presenza ai festival, per un artista non si può fare. Sono già stato a Coachella in passato. Com’è? È un festival. È polveroso. Per il deserto: quando stai cantando ti viene la tosse. Tutti i cantanti te lo dicono. È molto secco. Ma uno show è uno show".
All'Eurovision presenterà con Alessandro Cattelan e Laura Pausini.
"Con Ale mi faccio grandi risate. Laura è una grandissima lavoratrice. Quando ho organizzato il concerto benefico per il Libano "I love Beirut" l'ho chiamata 24 ore prima e le ho detto: "Se ti procuro il Colosseo ci vai?". Mi ha detto subito sì e ha lavorato fino alle quattro del mattino. Mi sento molto onorato di fare parte di questo trio perché non sono italiano ma l'Italia e la sua cultura musicale e televisiva mi sono entrate nel cuore. Ho sempre difeso l'idea dell'Europa. Pur avendo passaporto americano. Anche all'epoca dell'Illuminismo e di Victor Hugo quello che è successo è stato possibile grazie all'apertura tra i confini. I tempi più bui dell'Europa sono stati quando c'erano muri alzati. Non a caso la scenografia dell'Eurovision avrà un sole al centro, una grande luce, idea di Francesca (Montinaro, ndr). Un concetto bellissimo".
Americano, libanese, inglese, ma anche un po' italiano, francese: per chi tifa?
"Ho una predilezione per questa canzone norvegese che parla di lupi e banane, molto divertente. Ma sono neutrale, non posso esprimere preferenze. Nei brani ci sono tantissimi suoni orientali. Anche nel nuovo pezzo dell'Ucraina, è una sorta di rap bizantino".
Hanno fatto bene ad escludere la Russia?
"Non avevano scelta, considerando quello che sta succedendo. In una situazione estrema una decisione andava presa. Ci sarà tutta l'Europa, delegazioni di tutti i paesi, come si fa a far finta di niente quando c'è tanta violenza?".
Ha pensato di organizzare un concerto per la pace?
"È molto presto. In piena crisi è difficile dire: andiamo a cantare. Ho sempre paura quando un artista comincia a predicare opinioni sociali o politiche. Cosa può fare il mondo della musica non lo so, so però che deve raccontare quello che sta succedendo, la crisi umanitaria e questi grandi spostamenti. Sono tutti impreparati, non soltanto le persone che si stanno spostando, ma anche i sistemi di accoglienza. È una sfida gigante per l'Unhcr, un'organizzazione che conosco bene e che sta facendo tantissimo. C'è sempre il rischio che tutte queste storie umane diventino solamente statistiche e ci dimentichiamo degli individui. Il nostro compito è provocare empatia".
In questi anni sono cambiati i suoi punti di riferimento artistici?
"In questo momento sono Steve Reich, Philip Glass, Frankie Knuckles, Fischerspooner, l’italo disco sconosciuta degli anni 80... Ma la mia grandissima passione è il bebop, per me musica sacra e spirituale. C'è tutta una parte del jazz che parla dell'aspetto spirituale, però nella cultura popolare non si capisce ancora che quella è musica sacra. C’è un legame fra l'idea di un Dio e gli esseri umani. Coltrane lo diceva in continuazione. Con il suo sguardo molto umanista. Anche io sono radicalmente umanista. Sono molto colpito, per esempio, da questa idea di essere un cristiano secolare. Credo in Gesù Cristo, assolutamente sì. L’uomo, il filosofo, l’umanista radicale che ha ricevuto una punizione gigante per i suoi pensieri anti sistema. I vangeli lo hanno reso più mistico, più potente da un punto di vista religioso. Però considerare Gesù Cristo come se fosse un filosofo, un essere umano che ha ricevuto una punizione per i suoi pensieri radicali, ti dà uno sguardo più umanista anche sulla cristianità. Che secondo me nei nostri tempi non è una cosa cattiva da dire: è una cosa molto utile questa idea che non devi confessare a un Dio immaginario ma alla persona accanto a te".
Compone sempre in inglese? E l'Italia l'ha influenzata musicalmente?
"Io compongo in inglese perché scrivo testi e musica allo stesso tempo. Devono arrivare insieme perché secondo me ballano insieme. La musica italiana: è stata una scoperta grandissima la cultura dei cantautori italiani che prima non non conoscevo così tanto, conoscevo la cultura della chanson francese, da Gainsbourg a Moustaki, a Barbara, Trenet, grandissimo. La cultura italiana la conoscevo meno e poi ho scoperto Tenco, Dalla… La storia di Dalla, questa musica molto melodica e la combinazione con un messaggio anche urgente, politico. È una cosa che si è un po’ persa, ma è fondamentale. E poi la poesia e la filosofia estrema della combinazione di immagini e musica di Battiato. Un vero intellettuale pop nel senso bello e vero".
A proposito di artisti italiani, stava preparando uno spettacolo insieme a Dario Fo ma forse è andato perso.
"C'è una sceneggiatura di questa odd couple che si ritrova mentre fuori c’è il grande diluvio universale. All’inizio era in un appartamento, poi Dario l'ha cambiato. Inizia con un letto e due figure, poi metto la testa fuori io, e c’è anche lui, non riusciamo a dormire. E si scopre che siamo nella zona casalinga dei mobili di un grande Department Store come un Coin, Rinascente, e fuori appunto c'è il diluvio universale. C'è anche la visita di un angelo. Gabriele o Cupido. C’è la sospensione della realtà per confrontare realtà e surrealtà un po’ alla Beckett: un po’ Fo e un po’ Beckett. Era pensata come un'opera di teatro in televisione. Senza pubblico, come una sitcom radicale. Una sfida. Non so se lo vedremo mai".
Ripeterebbe l'esperienza televisiva di Stasera CasaMika?
"Quello è stato un miracolo. Molto bella la prima stagione, però anche alcune cose molto molto progressive nella seconda. La seconda stagione era più difficile per il pubblico. Per esempio, c’era questa fiction inserita dentro lo show. Se ci ripenso, chissà come ho fatto a convincere Rai Due a portarmi in Sardegna con una troupe cinematografica per tre giorni per seguirmi per 36 ore con un pastore… perché volevo fare un momento televisivo sui mestieri. E dunque ho detto: cominciamo con il più vecchio lavoro che esiste. E non è la prostituzione, anche se mi piacerebbe anche girare un segmento su quello. Mi sono detto: cominciamo con il pastore. È un mestiere dimenticato, anche se è il più importante. C’era questa sequenza con questo vecchio pastore che ha fatto il pastore da solo dall'età di 9 anni. E lui, quasi ottant’anni, dice: noi non contiamo niente, io sono seduto qua e so che il mondo se ne frega completamente di me. Inserire momenti così nella televisione popolare commerciale secondo me è una figata. Mi piacerebbe rifarlo. Secondo me però i tempi sono cambiati. I love Beirut ne è la prova. E l'evento del Pride che ho fatto per Indeed ha avuto dei contatti individuali di oltre 100 milioni di persone. Il mondo sta cambiando ed esistono spazi per quei tipi di progetti, un progetto di nicchia può avere un pubblico enorme. E non parlo solo delle piattaforme che esistono, c’è molto di più".